Te amo, Originale [color=yellow] Giallo [/color]

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^u^Len^u^
view post Posted on 4/9/2010, 13:16




Ok, facciamolo!
Questa è una storia che ho scritto io, una storia totalmente inventata. Non c'entra niente con anime e manga, è una storia ambientata nel nostro mondo, intendo quello reale.

La storia parla di una ragazza che attende qualcuno, ma quando trova questa persona, prima è presa da un forte sentimento, e poi la tristezza inizia a crescere dentro il suo cuore, fino ad arrivare alla totale perdita del controllo e di ogni logica.
La storia non ha un mesaggio preciso, anzi, non ce l'ha proprio. Spero l'appreziate ^_^



Avevo il mio vestito più bello, quello lungo con i fiori purpurei. La schiena scoperta, la scollatura profonda che disegnava una vistosa V sul mio petto, la pelle abbronzata, i capelli appena tagliati. Era un evento importante. Lei sarebbe tornata.
Camminai oltre la sala da ballo, pronta per la festa; le mie gambe facevano la loro comparsa ad ogni passo, si mostravano orgogliose e nude. Lo specchio lungo la stanza rifletteva la mia immagine. Mi guardai. Il bianco smorto del vestito cozzava con la vivacità del rosso. I fiori avevano ripreso vita quel giorno, forse perché nell'armadio si erano lasciati andare, ad alcuni erano addirittura caduti dei petali.
Lo sguardo cadde in mezzo al seno e poi sulle orecchie. Avevo dimenticato la collana e gli orecchini. Corsi di sopra, sperando che non arrivasse in quel momento. Dovevo essere perfetta per lei. Nulla doveva andare storto, altrimenti me ne sarei pentita per sempre; lei forse non ci avrebbe fatto caso e prima o poi se lo sarebbe dimenticato, ma io no. Non dimentico cose del genere.
Incedetti sulle scale, che sembravano più alte del solito, e mi precipitai in camera, dove il letto era pronto ad accoglierla. Il comodino gli era affianco e su di esso la scatola delle gioie. La aprii. I pendenti erano lì e anche la collana. Erano tutti di corallo e si abbinavano perfettamente con il rossetto e lo smalto.
Ritornai di sotto e mi osservai di nuovo allo specchio, nella sala da ballo. Il trucco era magnifico: la matita nera, l'eye-liner, il mascara che allungava le ciglia. Mi girai, mostrando la schiena alla superficie riflettente. L'abito cadeva benissimo sul mio corpo, ne mostrava le curve e di questo ero felice. Smisi di guardarmi e mi diressi verso la cucina, dove il cibo era stato già preparato e ordinato sui vassoi. Non era un pasto così ricco: qualche tartina, gamberetti, caviale, niente di che. Le bottiglie di champagne erano disposte vicino ai piatti. Era tutto pronto, proprio come volevo.
Uscii, quindi, per prendere una boccata d'aria. Aprii la porta della cucina che dava sul giardino. Le piante erano state potate e i fiori crescevano rigogliosi: una distesa azzurra contornava la casa. Mi accesi una sigaretta mentre passeggiavo per il prato. Feci un tiro e osservai la fontana di marmo a forma di angelo. Teneva in mano una brocca, da cui usciva dell'acqua: il getto si tuffava nella vasca sottostante e percorreva un lungo tratto orizzontale. Mi misi di fronte all'angelo. Aspirai fumo acre e mi passai una mano tra i capelli, sollevando il ciuffo biondo che spuntava come un girasole in un campo di corvi. Mi ero tinta i capelli il giorno prima, sicura che le sarebbero piaciuti. Puntai di nuovo gli occhi sulla statua e mi ricordai di quando le chiesi se credeva nell'esistenza degli angeli. Lei mi rispose di sì, che ci credeva perché altrimenti non sarei esistita. Arrossii al pensiero delle sue labbra che ripetevano quelle parole. Forse me le avrebbe dette anche in quell'occasione.
Continuai a camminare, facendo più volte il giro della casa. Poi mi misi a ballare come una scema, con la sigaretta ancora tra le dita. Mi facevo cullare dal vento, che muoveva i fiori del mio vestito. Presi a girare, tenendo con le mani il vestito e con i denti la sigaretta, che poi volò perdendosi nel prato. Anche il vento annunciava il suo arrivo, lo urlava. Mi sedetti stanca a terra, mi sdraiai sul prato a braccia e gambe aperte osservando i movimenti delle nuvole. Sembravano impazzite, erano in preda all'euforia, correvano come cavalli imbizzarriti. Accesi un'altra sigaretta e iniziai a fare dei cerchi di fumo. Non ne ero capace, ma a lei piaceva quando ci provavo. Mi chiedeva spesso di provare, ma io non volevo che iniziasse a fumare; almeno una di noi due doveva avere i polmoni sani.
Chiusi gli occhi e me la vidi davanti, bella e sensuale, con i capelli sciolti, che veniva verso di me e mi chiamava. L'abbracciai e lei fece altrettanto. Sperai che quella stretta non si sciogliesse mai, ma il rumore delle cicale mi svegliò.
Mi alzai svogliatamente e vidi delle macchine davanti all'ingresso, sulla ghiaia. Erano quelle degli invitati. Dalle finestre usciva della luce gialla; sicuramente qualche domestica l'aveva accesa andando via vedendomi addormentata sui ciuffi d'erba. Mi sistemai il vestito e l'acconciatura ed entrai in casa, salutando persone sconosciute. Forse erano amici suoi. Mi sedetti su una poltrona che si trovava in una stanza, dove il fuoco bruciava nel caminetto. Sui muri c'erano teste di animali, cinghiali, cervi; non so chi le abbia messe lì, non me lo sono mai domandata, so solo che c'erano e che ce le ho lasciate. Le trovo affascinanti, non mi mettono paura.
Bevevo champagne e vino, ma di lei nemmeno l'ombra. Qualche invitato cercava di instaurare una conversazione, ma io ero totalmente assente. Pensavo a lei, a quando sarebbe arrivata. Era in ritardo, ma non era mai stata puntuale. Mi sollevai dalla sedia imbottita e seguii la melodia di una chitarra. Era una musica spagnola, d'amore. Osservai il suonatore, il tipico ispanico con i capelli scuri e una leggera barbetta. I nostri sguardi si incrociarono e nuotai nei suoi profondi occhi scuri. Lo fissai per tutta l'esibizione e quando smise di suonare ci parlai. Gli dissi di quanto fossi stata colpita dalla canzone e dal suo tocco. Lui sorrise, mostrando i denti bianchi, e mi ringraziò. Gli chiesi se era stato chiamato da lei e se sapeva quando sarebbe arrivata. Mi rispose di sì, con accento iberico, ma ignorava l'ora dell'avvento. Gli porsi il bicchiere di vino e me ne andai senza salutare.
Ormai era tardi e molte persone se ne erano andate. Mi dicevano di essersi divertite, di aver apprezzato il pasto e lo champagne e si complimentarono per la casa. Io li ringraziavo e dicevo di essermi divertita altrettanto, anche se in realtà ero rimasta sulle scale a bere vigilando sulla porta, aspettando che arrivasse. Quando tutti se ne furono andati, feci un giro della casa. Osservavo la sporcizia e ciò che rimaneva della festa. Ritornai nella sala da ballo, dove c'era la parete di specchi. Non apparivo più fresca e bella come prima. In me c'era della mestizia, una tristezza che portavo da tempo. Mi avvicinai alla specchiera e ci appoggiai una mano. Abbassai il capo, convinta che anche stavolta non sarebbe venuta. Un suono di chitarra echeggiò nella sala. Tolsi la mano che aveva lasciato l'impronta sullo specchio e mi voltai. Il tocador era lì e suonava per me. Mi disse di sedere accanto a lui e ogni volta che finiva la canzone gli chiedevo di ripeterla, ancora ed ancora, all'infinito. Domandai il nome del brano. Te amo.
Non sapevo se quello fosse il titolo del pezzo o se fosse una confessione d'amore, ma mi ritrovai la sua lingua in bocca. Glielo concessi. Ci baciammo appassionatamente, come non avevo mai fatto con un uomo. Portai la mia mano sulla sua guancia, lui mi sollevò. Mi lasciò cadere sul canapè e si stese su di me. Le nostre labbra si toccavano, la saliva si mischiava. Lo allontanai e riguardai i suoi profondi occhi neri, poi iniziai ad accarezzarlo e a passargli le dita fra i capelli. Cercavo del romantico, del tenero in quel momento. Lui avanzava, cercando la bocca, e mi baciò di nuovo. Stavolta con più violenza che passione, con voglia di sesso e non di amore. Lo allontanai di nuovo e lo fissai in viso. Bello, davvero bello. Lo scansai e me ne andai, come se non fosse successo niente. Lui rimase fermo, forse perché aveva capito la situazione o forse no. Mi domandai se lo avessi accontentato così da farlo scappare. Volevo restare sola.
Salii in camera. Mi stesi sul letto e accesi una sigaretta. Il fumo bruciava malvagio la gola, mi faceva girare la testa, stavo male. La cenere mi cadeva sul viso e io rimanevo impassibile. Nulla poteva farmi soffrire quanto la sua mancanza. Mi sollevai e le lacrime presero ad uscire copiose, rigandomi le guance, sfasciandomi il trucco. Guardai attraverso la finestra e vidi in lontananza delle luci.
Una macchina stava entrando, il cancello era aperto. Si apprestava a seguire la strada ghiaiosa che conduceva al parcheggio davanti casa. Era un auto d'epoca, nera con il tettuccio bianco. Andava veloce e gli pneumatici smuovevano con forza i piccoli sassi bianchi. Una frenata stridula risuono nel giardino. La macchina si spense. Aspettai di vedere chi ci fosse dentro: forse qualche invitato che si era dimenticato qualcosa oppure l'autista che era venuto a prendere il suonatore spagnolo. Però quell'auto mi ricordava qualcosa. Decisi di scendere per vedere chi fosse, ma prima mi pulii il viso dal trucco che era scolato e poi me lo rifeci.
Le scale mi aspettavano ed infondo una donna. Tacchi, pantaloni neri, una giacca, degli occhiali da sole e un cappello. Aveva i capelli legati, presumibilmente li aveva nascosti sotto il copricapo. Mi guardava, anzi mi fissava. Iniziò spogliarsi: prima si tolse il cappello e sciolse i capelli marroni agitando la testa, poi si tolse gli occhiali con fare malizioso e cominciò a slacciarsi la giacca. Al primo bottone, feci uno scalino. Al secondo un altro, e così via. Ogni bottone corrispondeva ad uno scalino. Arrivata alla fine, la sua giacca era a terra. Un reggiseno nero le alzava il seno, che si ergeva prosperoso sulla pancia piatta. Le iniziai a girare intorno, osservandola, e i suoi occhi verde smeraldo mi seguivano attenti.
Era lei. Era rimasta uguale, non si era trasformata per me. Mi sentii una stupida: non dovevo tagliarmi i capelli e tingermeli, li dovevo lasciare com'erano. Dopo che le girai attorno me ne andai lentamente con piccoli passi nella sala da ballo, la sua preferita. Ero felice di averla rivista, ma ero anche infuriata con lei per avermi fatto piangere. Non doveva esitare così tanto a venire. Mi guardai allo specchio, come sempre, e i dubbi affluivano nel grande fiume di domande che portavo in testa. Sarò abbastanza per lei? Le piacerò ancora come una volta?
Lei era giunta nella stanza e si era avvicinata a me, che avevo la testa bassa e mi complessavo per lei. Mi offrì la mano, lo vidi dalla superficie riflettente. Mi voltai e la strinsi. Lei indietreggiò e io mi feci trascinare. Si sedette sul divano, dove prima avevo amoreggiato con lo spagnolo. Io mi accomodai sulle sue gambe, con le mie aperte. Eravamo faccia a faccia. Lei mi accarezzava i capelli e io il viso. Splendida, davvero splendida. Avvicinò lentamente le labbra, sentivo il suo respiro profumato sulla mia bocca. Mi baciò. Fu un bacio pieno di un sentimento ancestrale, profondo, simile all'amore. Le lingue si abbracciavano e con loro anche noi. Mise la sua mano sulla mia schiena; la muoveva su e giù, percorrendo con le dita il selciato delle mie vertebre. Poi ci appoggiò anche l'altra e mi strinse i reni. Intanto ci baciavamo, scambiandoci sapori conosciuti. Le sue mani scivolarono pian piano sempre più giù, avvolgendomi i glutei. Mi staccai da lei indispettita, liberandomi dalla sua stretta. I suoi occhi erano come confusi, tristi, frastornati. Cambiai posizione: mi alzai, portai la gamba destra accanto alla sinistra e mi adagiai di nuovo su di lei, circondandole il collo con le braccia. Gli sguardi si intrecciarono, si scambiarono parole mute, risate silenziose, ricordi cechi. Un altro bacio per sconvolgere la pace della sala. Sentii lo stesso amore arcano di prima, ancor più forte, quasi mi faceva male. Le carezzai il viso, toccandole dolcemente gli zigomi alti. Poi separammo di nuovo le bocche, ansiose di incontrarsi di nuovo. Soffiò, facendomi muovere il ciuffo biondo. Lo toccò, ci fece passare in mezzo le dita ossute. Accostò le labbra al mio orecchio e mi sussurrò un segreto; sembravamo due bambine. I miei capelli le piacevano. Baciò il padiglione rosa, lo leccò e morse l'orecchino di corallo. Io appoggiai la mia bocca carnosa sul suo collo altero. Lo sfiorai pesantemente e strisciai con la lingua giù, fino al petto. Le diedi un bacio in mezzo al seno e ritornai alla bocca. Le sue mani mi cinsero i fianchi e salivano sicure verso l'alto. Mi lambirono il petto, accarezzandolo dolcemente, massaggiandolo con delicatezza. Le allontanai di nuovo, con affetto stavolta. Lei sorrise ed io anche. Le spostai una ciocca di capelli da davanti e le rasentai la fronte con la punta del naso. Lei alzò il mento, cercando i miei occhi. Li trovò e ci fissammo a lungo. Ci avvicinammo flemmatiche, l'una agognava la bocca dell'altra. Un suono caldo, di chitarra, ruppe la quiete romantica. Ci voltammo e lo spagnolo era lì a suonare; era rimasto nella stanza per tutto il tempo, aveva visto tutto, un po' godendo forse. Le sue dita premevano sicure le corde. Si apprestò a ricantare la mia canzone, la nostra canzone. Te amo.
Una decina di ballerini comparvero nella sala da ballo. Fantasmi vestiti di musica e passione. Il rumore dei tacchi esaltava il ritmo, i movimenti fluidi esprimevano ciò che le parole volevano trasmettere. Danzavano per noi. Le mani delle donne disegnavano cerchi invisibili allungando le dita nel vuoto; le gonne volteggiavano armoniose, con grazia e trasporto. Le nacchere risuonavano nei palmi delle bailarinas mentre gli uomini battevano le mani, osservando l'assolo muliebre. Poi toccò a loro, che sbattevano i piedi a terra possenti e urlavano verbi delicati. Le gambe si muovevano rapide, i capelli lucidi ondeggiavano ritmicamente. I visi dei ballerini erano carichi di emozione, i corpi pieni di sensualità. D'improvviso tutto sparì, la musica terminò. Domandammo il bis, ma il tocador suonò una nuova canzone. Ed ecco di nuovo le gitane ballare con i loro ventagli neri e rossi. I vestiti porporini erano spettacolari, come le loro coreografie. Distolsi lo sguardo per un attimo e mi girai verso di lei. Era commossa: gli occhi lucidi carichi di lacrime, le guance arrossate. La baciai sulla guancia e lei fece altrettanto. Tornammo a guardare lo spettacolo, ma era tutto finito. L'iberico era sparito e con lui i suoi danzatori fantasmi. Non so come, ma avevamo visto la stessa immaginaria scena.
I nostri occhi si incrociarono di nuovo, un sentimento remoto ci invase. Ci scambiammo pareri sullo spettacolo a cui avevamo appena assistito ed era curioso constatare che avevamo immaginato le stesse figure, gli stessi ballerini, la stessa musica; eravamo veramente anime gemelle, forse. Mentre parlavo, fissava le mie labbra, incuriosita dalle parole, attenta a non perdere nemmeno una frase del mio discorso. Me ne resi conto, ma lasciai perdere. Poi aprì bocca e mi confessò dolcemente quanto fossi bella e quanto amasse i miei lineamenti morbidi. Le chiesi se le piaceva anche il mio naso largo e lei annuì, baciandomelo. Le avvolsi la testa con le dita, poggiandole le mani sulle orecchie, e le diedi un bacio sulla fronte, lasciandole lo stampo rosso. Si pulì strofinandosi lì dove l'avevo toccata e si lamentò del trucco pesante. Alzai gli occhi al cielo sbuffando e lei mi rimproverò per averlo fatto. La lasciai e me ne andai.
Corsi in camera infastidita; la odiavo quando mi faceva la ramanzina, soprattutto mentre ci coccolavamo e ci scambiavamo parole d'amore leggere. Sentii i suoi passi seguirmi, salire le scale, percorrere il corridoio e raggiungermi nella mia stanza. Mi voltai, sfoggiando l'espressione più cattiva che avevo, e me la ritrovai in ginocchio a chiedere il mio perdono. Le mani giunte tremavano un poco, il capo chino nascondeva gli occhi verdi dispiaciuti. La fissavo furiosa, seccata dal suo comportamento. Chiese scusa, ma non risposi, rimanevo in silenzio. Alzò un po' la testa e mostrò le pupille bagnate, le iridi contornate da un rosso tenue, un rosso di pianto. Mi sorpresi di vederla in quelle condizioni, a terra a chiedere scusa, non era da lei. E la sua reazione mi sembrò eccessiva, ma lei era così, drammatica. Stravolgeva tutto, era una romantica. Le offrii la mano e la tirai su, perdonandola. Un suo bacio per ringraziarmi. Uno mio. Per istinto. La buttai sul letto e mi ci stesi sopra. Le annusai i capelli, glieli tirai con forza. Le piaceva. Mi prese i fianchi e tirò su il vestito a fiori lentamente, denunandomi. Le nostre pance si sfioravano lussuriose. Le mie mani le strisciarono sulle schiena, raggiungendo il reggiseno. Lo slacciai e lo lancia via. I seni si baciarono maliziosi. Si tolse i pantaloni. Rimanemmo in mutande e tacchi. Le dita scivolavano dalle guance sino alle cosce per poi risalire dalla schiena e raggiungere la nuca. Fu una notte di passione ed amore, una notte indimenticabile. Una notte sofferta, sognata. Ci unimmo in un abbraccio arcano, diventammo un'unica persona, un unico spirito.
Quella notte fu mia. Quella notte fui sua.
Mi svegliai. Mi alzai nuda, sollevando le coperte, cercando di non fare rumore. Non volevo che si svegliasse. Andai verso la finestra e mi sedetti sul largo davanzale. Accesi una sigaretta e mi spostai una ciocca di capelli dal viso. Il fumo usciva sensuale dalla mia bocca e poi sgattaiolava via per tuffarsi nel blu della notte. Disegnava immagini astratte, ghirigori, linee casuali. Violava la verginità della notte, che se stava andando lentamente, sfregiandola di disegni grigiastri sgraziati. Stavo per finire di fumare. Estrassi subito dal pacchetto un'altra Marlboro Light e feci scattare l'accendino. Di nuovo immagini eteree grigie che svanivano nel nulla, lasciandomi sola. Sola con i miei pensieri. La guardai mentre dormiva, mentre mugugnava parole sonnambule. Mi faceva tenerezza. Quando dorme somiglia a una bambina. Così dolce, così pura. L'amavo per questo, perché era immacolata. La sua pelle candida, le gambe da capogiro, il seno morbido, il viso infantile, le labbra rosse e carnose. Stupenda, davvero stupenda. E non solo. Sapeva come trattarmi, come sedurmi. Mi scriveva lettere poetiche, suonava canzoni per me, mi regalava tutto ciò che volevo. Ogni domenica ricevevo dal fattorino un mazzo di rose rosse; sul biglietto c'era sempre scritto: all'angelo imperfetto, ti amo. Ed io sorridevo sempre mentre leggevo il foglietto, fingendomi stupita del dono e delle parole.
Mi spettinai un poco, mi alzai dal parapetto della finestra e mi andai a fare una doccia. Presi la vestaglia e mi diressi in bagno. Aprii l'acqua e, mentre aspettavo che si riscaldasse, iniziai a struccarmi. Il mascara aveva sporcato le palpebre, l'eye-liner era sparito lasciando una nuvola scura attorno all'occhio e la matita era scolata, travolta dalla passione della notte ormai morta. La luce rosa dell'alba colpì la finestra, illuminando la stanza. Il sole stava nascendo, come anche qualcosa dentro me. Mi fiondai nella doccia. L'acqua scorreva sul mio corpo, purificandomi, mentre qualcos'altro mi strisciava dentro, deturpandomi; un serpente si stava facendo strada tra le ossa, i muscoli e le vene e di colpo morse il cuore. Una terribile fitta mi fece piegare su me stessa. Mi strinsi il torace, cercando di capire cosa stesse succedendo. Le piccole gocce bagnavano il mio corpo e le lacrime si nascosero dietro esse. Piangevo, piangevo di dolore. Sapevo per cosa lo stavo facendo, ma non volevo crederci. Speravo che almeno quella volta non accadesse. Speravo che almeno quella volta non sarebbe sparita per settimane, ritornando quando le era più comodo. Ed io stupida che le reggevo il gioco, innamorata. L'acqua continua a scendere giù: bagnava il collo, scendeva inondando il capezzolo, si buttava sulla pancia per poi tuffarsi sulle gambe e i piedi. Mentre immaginavo il percorso delle gocce, un pensiero colpì la mia mente. Uscì dalla doccia, presi l'accappatoio e mi fiondai in camera.
Lei era ancora lì. Risi malignamente, senza farmi sentire. Nuda raccolsi il mio reggiseno e le mutande e li indossai. Scesi dirigendomi all'ingresso, dove le scale terminavano. Raccattai il suo cappello, gli occhiali da sole e la giacca. Il tutto nel modo più tranquillo. Andai alla ricerca delle chiavi della sua macchina, ma non trovandole decisi di andare direttamente nel parcheggio. Mentre uscivo, mi misi la giacca e la allacciai bene. Di là dalla porta, il sole splendeva felice e i suoi raggi colpirono una figura seduta sulle scale, accanto ad essa una chitarra. Il tocador era rimasto tutta la notte là, fuori dalla casa, solo come un cane. Non gli chiesi nulla, gli offrii solo una mano per alzarsi. Sorrise vedendomi. Lo baciai. Mano nella mano ci dirigemmo alla vettura nera. Le chiavi erano dentro, fortunatamente. Aprii lo sportello e il mio compagno fece lo stesso. Un altro bacio. Accesi il motore e fuggimmo insieme, lontano da quella casa.
Ora sarebbe toccato a lei aspettare, provare quel tremendo sentimento che ti divora dentro, mentre tu aspetti ansioso qualcuno o qualcosa che forse non rivedrai, o che forse non ricorderai più, e se sarai così fortunato da ritrovarlo, soffrirai ancora di più e avrai la costante paura di perdere quella cosa o quella persona.
Quando fummo fuori dal cancello chiesi allo spagnolo di suonare la nostra canzone. Fermai la macchina e lo baciai di nuovo. E cercando di dimenticare quello che avevo fatto la notte prima, quello che era successo in quegli anni, ripetei le parole del pezzo, come per salutare la mia vecchia vita ed accogliere quella che sarebbe stata la mia nuova vita:
«Te amo».

 
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